martedì 17 aprile 2012

Il giardino medievale di Franco Varano

Ci si trova, a volte, di fronte a opere d’arte apparentemente incomprensibili, dalle quali si rimane affascinati in un oscuro vincolo, un legame che dura nel tempo. Opere d’arte che nascondono un mistero, un segreto, forse sconosciuto allo stesso autore, che si svela lentamente, col tempo. In esse l’autore, più o meno consapevolmente, non cerca tanto una comunicazione immediata con l’altro da sé, quanto piuttosto una profonda dialettica. In questa libera espressione l’artista esprime soprattutto il proprio pensiero nascosto, esprime se stesso. In questi casi l’opera d’arte diviene linguaggio universale. Una di queste opere è Il Giardino Medievale di Francesco Varano, poeta calabrese, vissuto fino alla maturità liceale a Vibo Valentia e successivamente trasferitosi a Roma. Il libro (Edizioni Polistampa, 2012) sarà presentato martedì 17 aprile, alle ore 18, presso il Sistema Bibliotecario Vibonese: a relazionare, alla presenza dell’autore, saranno Francesco Gallo, Giacinto Namia e Merys Rizzo. Il Giardino Medievale è una raccolta di poesie composte tra il ’77 e il ’79, attraverso cui l’autore impagina pezzi di storia degli anni ’60 e ’70 (la contestazione, l’emigrazione, la civiltà contadina e la civiltà industriale, le stragi politiche) in una grande allegoria che cattura il lettore e lo invita alla riflessione. Nei testi si intrecciano i diversi percorsi che l’autore ha fatto nella sua esperienza quotidiana: la dimensione esistenziale e spirituale, la tensione civile ed etica, l’impegno sociale e politico, la riflessione filosofica e antropologica. In questa opera ogni pagina, ogni frase, ogni parola rivela ben più del significato letterale che propone: all’interno del linguaggio vi è il pensiero inconscio dell’autore, il suo ritmo, la sua musica, le sue domande, il suo travaglio interiore. L’opera in sé è legata strettamente all’essere stesso dell’autore. Essa racconta un’intensa ma pacata ricerca interiore, che si manifesta con una tensione idealistica, spirituale e civile tutta proiettata verso il mondo esterno e che sembra rivestire nell’autore soprattutto una valenza etica prima ancora che estetica. La narrazione, sin dal titolo dell’opera, è abilmente intessuta con un linguaggio metaforico, pieno di simbologie e di allegorie, fatto di “parole parlanti”, dense di senso e di significato: tutto tende ad esprimere il dolore e la sofferenza di questo nostro tempo, simbolicamente rappresentati dall’immagine di apertura del libro, la Crocifissione di Anversa di Antonello da Messina. Da questo punto di vista il libro si connota quasi come un ipertesto, in cui alle poesie si accompagnano citazioni simboliche, testi di altri poeti con cui l’autore sembra dialogare, immagini ben inserite nel corpo dell’opera e che si configurano anch’esse come pezzi testuali, che racchiudono una narrazione ed accompagnano il cammino dell’autore. Pensieri e parole di un uomo graffiato dalla vita ma non vinto, lucido ed integro, che canta la vita. Scrivere della vita e farlo attraverso il canto della poesia, come Varano riesce a fare, è dote di pochi. Non si può cantare la vita se non la si vive, nei suoi estremi di gioia e dolore, nel suo equilibrio dinamico. La poesia di Varano è un equilibrio abilmente dosato di realismo ed interiorità: egli esprime la sua umana esperienza con versi modulati dall’anima, aperti alla natura dell’uomo, alla vita e ai suoi problemi. Frammenti poetici che vanno dritti al cuore del lettore e ne scalfiscono l’animo. Temi venati di malinconica tristezza e, allo stesso tempo, di vitale speranza. Un poetare straordinariamente coinvolgente ed emozionante, che ci porta a seguire l’errare instancabile dell’autore. La parola, che consapevolmente si introduce nella sua stessa essenza, diventa in Varano sentimento e tensione interiore. La parola, come una sonda, si introduce nella sua anima e lo scandaglia dall’interno, coinvolgendolo sia nel suo Essere sia nel suo Io. In questo gioco l’autore è un poeta che non si sottrae alla sfida di svelarsi senza barriere, libero da ogni pregiudizio, pronto a dare libero e creativo sfogo alla sua sensibilità poetica, alle sue inclinazioni artistiche, alla sua tensione etica e sociale. Il poeta adopera le parole come elfi del pensiero, ma siffatte parole hanno la loro anima nel silenzio. Se è vero che la poesia è un’”arte silenziosa” (De Vigny), allora è anche vero che il parlare del poeta Varano è un “ascoltare il silenzio” (Heidegger), il silenzio dell’anima. Nelle sue mani il silenzio si trasforma in un mezzo raffinato per restituire alle parole autenticità e forza. Il poeta Varano cammina lungo le frontiere del linguaggio, rischiando a volte il non senso. Attraverso un raffinato sovvertimento linguistico crea metafore assolute e compie sperimentazioni interessanti a livello linguistico. D’altra parte la poesia è “le langage même des transgressions du langage” (Barthes). L’autore investiga la realtà, partendo dalla propria esperienza di vita, mettendo a nudo la propria coscienza, nella parte più intima e nascosta, per percorrere vie ideali che segnano l’andare del nostro tempo. La sua penna descrive fatti, cose, persone che abitano e animano il suo ed il nostro vissuto quotidiano. Il filo rosso che collega le varie parti della raccolta è una tensione morale, scevra da pregiudizi o sterili moniti, intesa come spunto per una riflessione acuta e profonda. Il suo vissuto quotidiano fatto di emozioni, ricordi, memorie, viene messo a disposizione dell’attualità, la vita contemporanea dei suoi simili spesso sovrastata da bisogni immediati che non lasciano spazio alla meditazione, ad una presa di coscienza, etica, della propria vita. Una raccolta densa, evocativa, raffinata: una lettura poetica cadenzata, di grande impatto emotivo. Un libro che fa riflettere e, dunque, da leggere.
Michele Petullà

domenica 25 marzo 2012

Il grillo parlante: Il significato delle parole espropriate dalla politica


Delle citazioni di Calvino si abusa, ma c’è un suo pezzo del 1965 che in questi giorni mi torna in mente con insistenza ossessiva: perché non solo la politica, ma la nostra stessa vita passa attraverso il linguaggio. La patologia del linguaggio denota quindi un problema esistenziale molto più grande, non di rado esiziale. L’autore delle Città invisibili scriveva: «avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli di amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è il terrore semantico, cioè la fuga di fronte a un vocabolo che abbia per se stesso un significato […]. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente».

Flessibilità in uscita: libertà di licenziare secondo le fasi lunari, specie se si avvicinano i presupposti per l’assunzione a tempo indeterminato. Può essere buona, se si è licenziati con un sorriso, o cattiva, se la cosa finisce davanti al giudice. Il concetto di flessibilità è spesso accompagnato da aggettivi che lo rendono accattivante fino a conferirgli leggerezza, vitalità e brio. La rigidità del posto fisso è monotona, familistica, deprimente. Il precario è mobile, qual piuma al vento. E il vento soffia, lo si chiami blizzard o spread.

Paccata: elemosina sociale spacciata – o spaccata, se preferite – per concessione generosa. Un tempo avremmo parlato di spacconata, lemma del quale “paccata” rappresenta forse una crasi.

Contratto alfa: prodromo del contratto omega, con licenziamento finale.

Riforme condivise: ossimoro di portata storica e valenza oscuramente buonista. Si conosce anche la variante golpista delle riforme con divise, collegata a degenerazioni critiche della condivisione.

Sacrificio: termine sfuggente e solenne, il “fare sacro” tende a ricadere su lavoratori dipendenti e pensionati, su cui grava il compito di farci restare in Europa. Spesso è associato al concetto di equità, principio in nome del quale si legittima ogni tipo di discriminazione sociale.

Valore legale: è una locuzione evocata solo in termini abolizionistici, per trasformare in carta straccia titoli di studio faticosamente conseguiti in università plebee prive di risorse.

Libertà: si tratta di un termine precario in liquidazione, confuso con liberismo e libertinaggi concussori in fase di depenalizzazione. Si associa spesso a Giustizia, in attesa che le riforme condivise ne destrutturino i contenuti come sta accadendo all’articolo 18.

Responsabilità: abolita la variante politica e prescritta quella penale, il concetto viene ormai invocato solo a proposito dei giudici, responsabili colpevoli solvibili. Si ignora se questo profilo sia, come la corruzione, un pensiero fisso della Guardasigilli.

Legalità: è una nozione geneticamente modificata dalla mutazione ontologica dei suoi contenuti. Se legalità è rispetto delle leggi ad personam, la sua osservanza diventa beffarda e pedante.

Referente politico di Cosa Nostra: è espressione che, a detta della Cassazione, non significa nulla. Auspichiamo una sua rapida sostituzione con “mediatore subculturale tra Stato e concorrenza”: in tempo di liberismo economico, potrebbe trattarsi di una valida
alternativa professionale in un settore che non conosce crisi e assume a tempo indeterminato.

Dove trionfa l’antilingua la lingua viene uccisa, ma anche noi non ci sentiamo tanto bene.
Michele Petullà

giovedì 26 agosto 2010

Il San Rocco di Pino Cinquegrana

San Rocco di Montpellier – Il Santo del Graal (Adhoc edizioni), è l’ultimo (in ordine di tempo) lavoro letterario del poliedrico e prolifico scrittore e saggista Giuseppe Cinquegrana. Il libro è stato presentato a Maierato, in una suggestiva e piacevole cornice in puro stile caffè-letterario. A relazionare, dopo i saluti di Francescantonio Liberto, Presidente Provinciale della Confartigianato, Francesco Deodato, Vice Comandante Regionale dell’Esercito, con un’illuminante intervento teso a contestualizzare la figura di San Rocco all’interno della tematica relativa ai Cavalieri Templari ed al Santo Graal, e Damiano Pietropaolo, Professore di Storia dello Spettacolo all’Università di Toronto, con un toccante quanto emozionante e coinvolgente intervento snocciolato sul filo della memoria e dei ricordi, in un ideale ed auspicato ricongiungimento, nel nome e nel segno di San Rocco, della comunità maieratana locale e delle tante comunità maieratane sparse in giro per il mondo a causa dell’emigrazione. A concludere, l’autore stesso del libro, che ne ha rimarcato l’importanza e il significato all’interno della cultura, delle tradizioni e della storia della religiosissima comunità maieratana, particolarmente devota a San Rocco. La serata, inoltre, è stata piacevolmente allietata dalla musica e dalle melodie di Franco Pontoriero, leader e voce narrante del noto gruppo di musica popolare “LiraBattente”, che, accompagnato dai figli Michele (fisarmonica) e Daniela (flauto), ha eseguito alcuni brani del vasto repertorio della band, che sta riscuotendo un notevole successo di pubblico e di critica anche fuori dai confini regionali. Presenti tra il pubblico personalità varie e di spicco, tra cui il Sindaco di Vibo Valentia, Nicola D’Agostino, e il responsabile della produzione del TG2-Rai, Teodoro Caruso. Nel corso della serata è stato proiettato un cortometraggio sulla storia e sui percorsi del Santo, nonché sulla festa ed i riti a lui dedicati dalla comunità di Maierato, rendendo così ancora più immediatamente contestualizzato e fruibile il contenuto del libro medesimo.
Il libro è un’interessante quanto affascinante viaggio attraverso la storia, il mito e la simbologia, i documenti e i luoghi del Santo taumaturgo e guaritore, nato a Montpellier da nobile famiglia e divenuto ben presto “pellegrino della speranza”. Uno dei santi più venerati in Europa che, pur senza essere mai passato fisicamente per Maierato, ha suscitato, e continua a suscitare, in quella comunità, una fortissima devozione, a causa – come dice l’autore del libro - anche delle tantissime guarigioni miracolose che vi ha operato. Un Santo che, per le sue tante manifestazioni miracolose, è festeggiato e venerato anche in molti altri paesi del Vibonese e della Calabria intera, le cui comunità si rivolgono a lui con sentimenti e manifestazioni di forte devozione e religiosità popolare, che mettono in evidenza tutta la forza aggregante dei rituali religiosi. Il libro presenta una narrazione avvincente, dalla quale emerge chiaramente il contesto storico e culturale del periodo in cui San Rocco visse (in un’Europa devastata dalla peste nera e da altre epidemie), il suo percorso ideale e simbolico da Montpellier a Maierato, come vuol farci immaginare l’autore, il senso dell’attaccamento e della devozione della sua comunità al Santo del Graal. Uno dei grandi meriti dell’autore, infatti, è sicuramente anche quello di aver messo in evidenza, in modo chiaro, le possibili connessioni tra San Rocco e le due vicende più celebri ed affascinanti del Medioevo: il mistero del Santo Graal e la storia dei Cavalieri Templari, l’ordine cavalleresco più conosciuto della storia, che a distanza di sette secoli dal suo scioglimento suscita ancora molto interesse, e non solo tra gli studiosi, come ci ricorda un altro recente libro dello stesso autore (Segni Templari nella Calabria Medievale). Infatti, nella Chiesa di Rennes-le-Chateau, un paesino proprio vicino a Montpellier, in una terra ricca di leggende, a cui si lega il mistero Templare e del Santo Graal e in cui si intrecciano tante storie dei Templari, si trovano le statue raffiguranti Santa Germana, Sano Rocco, Sant’Antonio di Padova, Sant’Antonio Abate e Santa Lucia, la cui disposizione e successione, in base alle iniziali dei relativi nomi, dà proprio questo risultato: Graal. Una circostanza che l’autore del libro ci pone davanti, non come una semplice casualità, ma come qualcosa di molto più significativo e concreto, un’ipotesi da indagare e da approfondire. Un percorso letterario, dunque, sospeso tra storia e mito, attraverso le tradizioni legate al culto del Santo, la simbologia dei riti e delle offerte votive, i canti popolari religiosi e gli inni votivi dedicati al Santo, all’interno del quale l’autore vaga per chiese e monasteri, tra documenti antichi e libri recenti, raccontando storie di luoghi e personaggi, alla scoperta dei tanti segni della “presenza” del Santo del Graal all’interno della comunità maieratana e di tante altre comunità calabresi. L’autore illustra questo percorso con dovizia di particolari e con rapida ma efficace scrittura. Luoghi, chiese, storie, feste, rituali, personaggi vengono rivisitati con l’occhio attento dell’esperto antropologo, alla ricerca di segni, simboli e tracce che contribuiscono a definire i contorni della storia di San Rocco. Il tutto arricchito da un’opportuna dovizia di note e un’approfondita bibliografia, all’interno di un elegante volume di piacevole e scorrevole lettura. Michele Petullà
San Rocco di Montpellier – Il Santo del Graal (Adhoc edizioni), è l’ultimo (in ordine di tempo) lavoro letterario del poliedrico e prolifico scrittore e saggista Giuseppe Cinquegrana. Il libro è stato presentato a Maierato, in una suggestiva e piacevole cornice in puro stile caffè-letterario. A relazionare, dopo i saluti di Francescantonio Liberto, Presidente Provinciale della Confartigianato, Francesco Deodato, Vice Comandante Regionale dell’Esercito, con un’illuminante intervento teso a contestualizzare la figura di San Rocco all’interno della tematica relativa ai Cavalieri Templari ed al Santo Graal, e Damiano Pietropaolo, Professore di Storia dello Spettacolo all’Università di Toronto, con un toccante quanto emozionante e coinvolgente intervento snocciolato sul filo della memoria e dei ricordi, in un ideale ed auspicato ricongiungimento, nel nome e nel segno di San Rocco, della comunità maieratana locale e delle tante comunità maieratane sparse in giro per il mondo a causa dell’emigrazione. A concludere, l’autore stesso del libro, che ne ha rimarcato l’importanza e il significato all’interno della cultura, delle tradizioni e della storia della religiosissima comunità maieratana, particolarmente devota a San Rocco. La serata, inoltre, è stata piacevolmente allietata dalla musica e dalle melodie di Franco Pontoriero, leader e voce narrante del noto gruppo di musica popolare “LiraBattente”, che, accompagnato dai figli Michele (fisarmonica) e Daniela (flauto), ha eseguito alcuni brani del vasto repertorio della band, che sta riscuotendo un notevole successo di pubblico e di critica anche fuori dai confini regionali. Presenti tra il pubblico personalità varie e di spicco, tra cui il Sindaco di Vibo Valentia, Nicola D’Agostino, e il responsabile della produzione del TG2-Rai, Teodoro Caruso. Nel corso della serata è stato proiettato un cortometraggio sulla storia e sui percorsi del Santo, nonché sulla festa ed i riti a lui dedicati dalla comunità di Maierato, rendendo così ancora più immediatamente contestualizzato e fruibile il contenuto del libro medesimo.
Il libro è un’interessante quanto affascinante viaggio attraverso la storia, il mito e la simbologia, i documenti e i luoghi del Santo taumaturgo e guaritore, nato a Montpellier da nobile famiglia e divenuto ben presto “pellegrino della speranza”. Uno dei santi più venerati in Europa che, pur senza essere mai passato fisicamente per Maierato, ha suscitato, e continua a suscitare, in quella comunità, una fortissima devozione, a causa – come dice l’autore del libro - anche delle tantissime guarigioni miracolose che vi ha operato. Un Santo che, per le sue tante manifestazioni miracolose, è festeggiato e venerato anche in molti altri paesi del Vibonese e della Calabria intera, le cui comunità si rivolgono a lui con sentimenti e manifestazioni di forte devozione e religiosità popolare, che mettono in evidenza tutta la forza aggregante dei rituali religiosi. Il libro presenta una narrazione avvincente, dalla quale emerge chiaramente il contesto storico e culturale del periodo in cui San Rocco visse (in un’Europa devastata dalla peste nera e da altre epidemie), il suo percorso ideale e simbolico da Montpellier a Maierato, come vuol farci immaginare l’autore, il senso dell’attaccamento e della devozione della sua comunità al Santo del Graal. Uno dei grandi meriti dell’autore, infatti, è sicuramente anche quello di aver messo in evidenza, in modo chiaro, le possibili connessioni tra San Rocco e le due vicende più celebri ed affascinanti del Medioevo: il mistero del Santo Graal e la storia dei Cavalieri Templari, l’ordine cavalleresco più conosciuto della storia, che a distanza di sette secoli dal suo scioglimento suscita ancora molto interesse, e non solo tra gli studiosi, come ci ricorda un altro recente libro dello stesso autore (Segni Templari nella Calabria Medievale). Infatti, nella Chiesa di Rennes-le-Chateau, un paesino proprio vicino a Montpellier, in una terra ricca di leggende, a cui si lega il mistero Templare e del Santo Graal e in cui si intrecciano tante storie dei Templari, si trovano le statue raffiguranti Santa Germana, Sano Rocco, Sant’Antonio di Padova, Sant’Antonio Abate e Santa Lucia, la cui disposizione e successione, in base alle iniziali dei relativi nomi, dà proprio questo risultato: Graal. Una circostanza che l’autore del libro ci pone davanti, non come una semplice casualità, ma come qualcosa di molto più significativo e concreto, un’ipotesi da indagare e da approfondire. Un percorso letterario, dunque, sospeso tra storia e mito, attraverso le tradizioni legate al culto del Santo, la simbologia dei riti e delle offerte votive, i canti popolari religiosi e gli inni votivi dedicati al Santo, all’interno del quale l’autore vaga per chiese e monasteri, tra documenti antichi e libri recenti, raccontando storie di luoghi e personaggi, alla scoperta dei tanti segni della “presenza” del Santo del Graal all’interno della comunità maieratana e di tante altre comunità calabresi. L’autore illustra questo percorso con dovizia di particolari e con rapida ma efficace scrittura. Luoghi, chiese, storie, feste, rituali, personaggi vengono rivisitati con l’occhio attento dell’esperto antropologo, alla ricerca di segni, simboli e tracce che contribuiscono a definire i contorni della storia di San Rocco. Il tutto arricchito da un’opportuna dovizia di note e un’approfondita bibliografia, all’interno di un elegante volume di piacevole e scorrevole lettura. Michele Petullà

sabato 21 agosto 2010

Fabrizio De Andrè: Mileto lo ricorda e ne tramanda la memoria.

E’ calato il sipario sulla III edizione del Premio “Ricordando De Andrè”, che si è svolto nella suggestiva Piazza Pio XII di Mileto, per l’occasione gremita in ogni angolo di un pubblico attento e partecipe. La manifestazione, organizzata dall’omonima Associazione Culturale, presieduta da Francesco Ciccone, e patrocinata dalla Regione Calabria, dall’Amministrazione Provinciale di Vibo Valentia, dal Comune e dalla Proloco della ridente cittadina normanna, è stata presentata da Luigi Grandinetti, volto noto dell’emittenza televisiva calabrese. Un’apposita giuria, composta da esperti del settore artistico-musicale e letterario, giornalisti e personalità varie, tra cui Tina Galante (Mezzosoprano), Raffaella Soriano (Musicista), Pino Cinquegrana (Saggista/Antropologo), Michele Petullà (Critico musicale e appassionato studioso di De Andrè), il Sindaco di Mileto, Enzo Varone, lo stesso presidente dell’Associazione organizzatrice, Francesco Ciccone, Lidia Ruffa, Giuseppe Currà e Francesco Ridolfi (Giornalisti), e presieduta da Miche Figliuzzi, fine conoscitore della musica e dei testi di De Andrè e delegato dell’omonima fondazione, diretta dalla moglie del compianto cantautore genovese, Dori Ghezzi, ne ha decretato il vincitore, alla fine di una serata intensa e ricca di emozioni, dall’esito incerto fino all’ultimo istante, nella quale i concorrenti si sono alternati sul palco con interpretazione ed arrangiamenti di alto livello qualitativo, in un alternarsi di suoni ed emozioni che hanno piacevolmente coinvolto ed appassionato l’ampio pubblico presente, rendendo non facile il lavoro di valutazione della commissione medesima. Ad aggiudicarsi l’ambito premio la nota Band di musica popolare “I Mattanza”, con un’originalissima interpretazione della canzone Bocca di Rosa, in versione dialettale (Bbucca di Rrosa), grazie alla quale si sono aggiudicati anche il riconoscimento quale interpretazione più originale, ex aequo con il noto gruppo i Koralira”, i quali hanno interpretato in chiave acustica e dialettale la canzone Si chiamava Gesù.

Ottime sono state anche le performance di altri gruppi meno noti, i quali hanno proposto interpretazioni ed arrangiamenti musicali di alta qualità, come Angelo Fusca (già vincitore della I edizione con una straordinaria A Cimma), accompagnato dai Last Minute Band (Princesa); i “Fronesis” (già vincitori della II edizione con una superba Fiume Sand Creek), voce solista Saverio Catagnoti (Andrea); Antonio Giordano (Dolcenera); il gruppo “In Viaggio”, voce solista Filippo Lico (Un Giudice); i “Kalura, voce solista Onofrio Berlingeri (Anime Salve). E poi, a seguire, gli altri concorrenti: Francesca e Loredana, accompagnate al violino dalla bravissima, e ormai famosa, Greta Medini (Canzone dell’Amore perduto); i “Dejavù” (Un matto); Alessio Giordano (Ballata dell’amore cieco o della vanità), i “Diadema” (Il testamento di Tito). Un’intera sera, dunque, una bellissima serata di musica, dedicata a Fabrizio De Andrè - che ha lasciato un segno indelebile nel panorama musicale italiano - ed alle sue canzoni, sospese tra musica e poesia, per ricordarlo e tramandarne la memoria.

De Andrè, infatti, era e rimane uno fra i più conosciuti, amati ed importanti cantautori italiani. Ne sono testimonianza e dimostrazione i tanti concerti celebrativi, i tributi e gli omaggi alla sua opera che, sin dalla sua scomparsa, avvenuta l’11 gennaio 1999, si susseguono sempre più numerosi e partecipati. In questo contesto, ed in questo fermento culturale-musicale, si inserisce ed acquista ancora più rilevanza e significatività il Premio “Ricordando De Andrè”, organizzato a Mileto. Una manifestazione che, dal punto di vista artistico-culturale, vuole stimolare e promuovere, attraverso la riproposizione e l’interpretazione delle canzoni di De Andrè, una creatività libera e non condizionata dalle tendenze legate alle mode, al fine di dare originalità e vitalità alla produzione artistica in campo musicale. Una manifestazione di ampio respiro e di sicuro interesse artistico-culturale; un appuntamento molto atteso, che si candida a divenire polo di attrazione, non solo per artisti ed appassionati della musica italiana d’autore, e a proiettare la ridente cittadina normanna, già ricca di storia e di cultura, nei grandi circuiti culturali di interesse nazionale.

Mileto, dunque, attraverso questo Premio, ricorda Fabrizio De Andrè e ne tramanda la sua memoria.

Ricordare De Andrè significa ricalcare i percorsi dei suoi personaggi, quegli angoli di umanità con cui si confrontava e che ha molto studiato, così tanto da tentare di comprenderli. Si è sforzato di comprendere realtà differenti, usando la gioia del dialogo che, specie in una realtà come la nostra, rimane una condizione fondamentale di crescita e di democrazia. De Andrè ha introdotto nel mondo della musica leggera un nuovo modo di esporre, in musica e in parole, i fatti e la realtà della vita. Ha elevato le parole al rango di racconto-poesia. Con quel timbro così unico, inconfondibile, inimitabile, la sua voce non era mai estranea a ciò di cui parlava o cantava. Era una voce etica, ed in tutte le sue canzoni traspare la ricerca del senso etico prima ancora che estetico. Per questo rappresenta una leggenda italiana, la cui musica e le cui parole hanno fatto e fanno battere il cuore. Raramente gli uomini riescono a scuotere le coscienze come Fabrizio de Andrè ha saputo fare, con la sua voce da sciamano suadente e le sue canzoni, in tanti anni di carriera sempre fuori dal coro, dalle regole e dai canoni del sistema. Per questo, tanti e tanti, molti, che sono cresciuti con le sue canzoni ed hanno riconosciuto nella sua musica e nelle sue parole gli insegnamenti di un grande maestro, continuano ad ascoltare la sua voce. Attraverso le sue canzoni ci ha parlato innanzitutto di libertà, invitandoci a pensare con la nostra testa, rifiutando dogmi, parole d’ordine e slogan da combattimento. Per molti, ascoltare De Andrè è stato come leggere un romanzo di formazione, uno di quei libri in cui si racconta una crescita e ci si identifica in una maturazione. Grazie Fabrizio per aver cantato di Marinella, di Bocca di Rosa, di Via del Campo, di una Smisurata preghiera, del nostro Amico Fragile, dei nostri amori perduti; per averci fatto gridare attraverso le tue ballate contro tutte le assurdità del mondo, contro le sue ipocrisie e le sue ingiustizie. E grazie per averci insegnato che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”.

Michele Petullà

sabato 4 ottobre 2008

Epopea Alpina: Un uomo. Una storia
Racconta Don Giuseppe Ferrari

Marcella Mellea, Michele Petullà, un uomo, una storia,
Vibo Valentia, adhoc edizioni, 2008,127, s.i.p.

Libro a quattro mani la cui trama coinvolgente e’ scritta in forma chiara e scorrevole e si fa leggere volentieri e tutto di un fiato, per arrivare alla fine della vicenda che (spinge verso l’epilogo).
Sembra di rivivere e rivisitare una tragedia familiare delle varie ed assortite guerre del passato e del presente.
Lo stile colloquiale apre con un dolce dialogo continuo e pacato, tra la figlia ed il proprio padre che diventa talvolta soliloquio reale ed immaginario insieme, denso di tenui, delicati ed affettuosi sentimenti, di emozioni forti e non rimossi, recuperati dallo struggente scrigno della memoria. In questo clima viene descritta la vicenda di un umile alpino calabrese che lotta per la sopravvivenza e per il ritorno alla casa natia dove la madre sempre l’aspetta.
Il protagonista è un alpino coinvolto in una storia più grande ed imprevista della sua vita, durante l’arco della seconda grande guerra (1939-45); non voluta, ma subita come da quasi tutti i nostri soldati.
Il testo preso in esame ricostruisce fedelmente il quadro storico, con cenni rapidi, ma sicuri, l’avventura dei nostri soldati e la conseguente disfatta verificatasi dopo la rovinosa ritirata dal Don.
Mussolini “aveva bisogno di un pugno di morti da usare al tavolo delle trattative” per una guerra che secondo i suoi calcoli sarebbe durata poco tempo, anche perché suggestionato dalla “Blitzkrieg” la guerra lampo di Hitler, che aveva avuto tanti successi. L’esempio più éclatante e drammatico della impreparazione ed inferiorità militare italiana si verificò proprio con la partecipazione alla guerra di Russia. Poco dopo l’attacco tedesco, 26 giugno 1941, Mussolini aveva inviato un corpo di spedizione italiano, lo Csir, forte di circa 50.000 uomini. Nessuna ragione strategica coinvolgeva l’Italia in quel conflitto, né vi erano interessi nazionali da far valere.
L’unico fondamento di quella decisione, che sarebbe costata perdite umane immense, era l’intenzione di Mussolini di acquisire titoli di benevolenza presso l’alleato tedesco e di sdebitarsi, in qualche modo dell’aiuto ricevuto in Grecia. Nel 1942, poi, dopo le prime difficoltà incontrate dai tedeschi nella “guerra lampo”, le forze italiane furono portate a circa 220.000 uomini, (un intero corpo di armata): l’Armir. Furono proprio queste truppe a trovarsi coinvolte direttamente nella offensiva d’inverno lanciata dai sovietici sul fiume Don; il fronte fu sfondato e decine di migliaia di soldati italiani morirono congelati o furono fatti prigionieri. I soldati italiani erano male armati e peggio equipaggiati, combatterono col fango, il ghiaccio e la fame. Vi furono gesti e scaramucce di grande eroismo individuale ed insieme di estrema resistenza davanti all’inesorabile avanzata dell’armata sovietica.
L’eco delle canzonette… del “testamento del capitano” mi tornano tristemente all’orecchio: I suoi alpini ghe’ manda a dire – che non scarpe per camminar “o con scarpe o senza scarpe – i miei alpini li voglio qua”…
Francesco Giuseppe Mellea è stato un fortunato redivivo, grazie alla sua indomita fede religiosa ed alla sua tenace volontà.
Per lui è stato di grande aiuto e rimarrà riconoscente, per il resto della sua vita, per l’intervento di S. Franecsco di Paola, pag. 91 del testo, grato alla sua intercessione per essere riuscito a sopravvivere al disastroso evento bellico che solo nella nostra Calabria causò la morte di migliaia di uomini.
I nostri militari in segno di protezione portavano custodite gelosamente nel taschino della giacca della divisa militare (dalla parte del cuore) le immagini della Madonna, dei Santi di cui erano devoti, con le foto dei propri cari lontani.
Il libro costituisce un monito contro l’assurdità della guerra che lascia sempre dietro di sé distruzioni, lutti e rovine ed una lunga ostilità tra i popoli.
“Risposta non c’è, o forse chi sa, caduta nel vento sarà? Al perché della guerra (Bobby Dylan) canta: “Quanti cannoni dovranno sparar – e quando la pace verrà – Quanti bimbi innocenti dovranno morir e senza saperne il perché – Quanto giovane sangue versato sarà, finchè un’alba nuova verrà?”
“Dona, o Signore il riposo eterno ai nostri morti ed ai caduti di tutte le guerre – Concedi ai popoli la pace nella giustizia e nella libertà e che l’Italia nostra, stimata ed amata nel mondo, meriti la protezione tua e la materna custodia di Maria, anche in virtù della concordia operosa dei suoi figli Amen”, (dalla preghiera del soldato).

Giuseppe Ferrari