martedì 17 aprile 2012

Il giardino medievale di Franco Varano

Ci si trova, a volte, di fronte a opere d’arte apparentemente incomprensibili, dalle quali si rimane affascinati in un oscuro vincolo, un legame che dura nel tempo. Opere d’arte che nascondono un mistero, un segreto, forse sconosciuto allo stesso autore, che si svela lentamente, col tempo. In esse l’autore, più o meno consapevolmente, non cerca tanto una comunicazione immediata con l’altro da sé, quanto piuttosto una profonda dialettica. In questa libera espressione l’artista esprime soprattutto il proprio pensiero nascosto, esprime se stesso. In questi casi l’opera d’arte diviene linguaggio universale. Una di queste opere è Il Giardino Medievale di Francesco Varano, poeta calabrese, vissuto fino alla maturità liceale a Vibo Valentia e successivamente trasferitosi a Roma. Il libro (Edizioni Polistampa, 2012) sarà presentato martedì 17 aprile, alle ore 18, presso il Sistema Bibliotecario Vibonese: a relazionare, alla presenza dell’autore, saranno Francesco Gallo, Giacinto Namia e Merys Rizzo. Il Giardino Medievale è una raccolta di poesie composte tra il ’77 e il ’79, attraverso cui l’autore impagina pezzi di storia degli anni ’60 e ’70 (la contestazione, l’emigrazione, la civiltà contadina e la civiltà industriale, le stragi politiche) in una grande allegoria che cattura il lettore e lo invita alla riflessione. Nei testi si intrecciano i diversi percorsi che l’autore ha fatto nella sua esperienza quotidiana: la dimensione esistenziale e spirituale, la tensione civile ed etica, l’impegno sociale e politico, la riflessione filosofica e antropologica. In questa opera ogni pagina, ogni frase, ogni parola rivela ben più del significato letterale che propone: all’interno del linguaggio vi è il pensiero inconscio dell’autore, il suo ritmo, la sua musica, le sue domande, il suo travaglio interiore. L’opera in sé è legata strettamente all’essere stesso dell’autore. Essa racconta un’intensa ma pacata ricerca interiore, che si manifesta con una tensione idealistica, spirituale e civile tutta proiettata verso il mondo esterno e che sembra rivestire nell’autore soprattutto una valenza etica prima ancora che estetica. La narrazione, sin dal titolo dell’opera, è abilmente intessuta con un linguaggio metaforico, pieno di simbologie e di allegorie, fatto di “parole parlanti”, dense di senso e di significato: tutto tende ad esprimere il dolore e la sofferenza di questo nostro tempo, simbolicamente rappresentati dall’immagine di apertura del libro, la Crocifissione di Anversa di Antonello da Messina. Da questo punto di vista il libro si connota quasi come un ipertesto, in cui alle poesie si accompagnano citazioni simboliche, testi di altri poeti con cui l’autore sembra dialogare, immagini ben inserite nel corpo dell’opera e che si configurano anch’esse come pezzi testuali, che racchiudono una narrazione ed accompagnano il cammino dell’autore. Pensieri e parole di un uomo graffiato dalla vita ma non vinto, lucido ed integro, che canta la vita. Scrivere della vita e farlo attraverso il canto della poesia, come Varano riesce a fare, è dote di pochi. Non si può cantare la vita se non la si vive, nei suoi estremi di gioia e dolore, nel suo equilibrio dinamico. La poesia di Varano è un equilibrio abilmente dosato di realismo ed interiorità: egli esprime la sua umana esperienza con versi modulati dall’anima, aperti alla natura dell’uomo, alla vita e ai suoi problemi. Frammenti poetici che vanno dritti al cuore del lettore e ne scalfiscono l’animo. Temi venati di malinconica tristezza e, allo stesso tempo, di vitale speranza. Un poetare straordinariamente coinvolgente ed emozionante, che ci porta a seguire l’errare instancabile dell’autore. La parola, che consapevolmente si introduce nella sua stessa essenza, diventa in Varano sentimento e tensione interiore. La parola, come una sonda, si introduce nella sua anima e lo scandaglia dall’interno, coinvolgendolo sia nel suo Essere sia nel suo Io. In questo gioco l’autore è un poeta che non si sottrae alla sfida di svelarsi senza barriere, libero da ogni pregiudizio, pronto a dare libero e creativo sfogo alla sua sensibilità poetica, alle sue inclinazioni artistiche, alla sua tensione etica e sociale. Il poeta adopera le parole come elfi del pensiero, ma siffatte parole hanno la loro anima nel silenzio. Se è vero che la poesia è un’”arte silenziosa” (De Vigny), allora è anche vero che il parlare del poeta Varano è un “ascoltare il silenzio” (Heidegger), il silenzio dell’anima. Nelle sue mani il silenzio si trasforma in un mezzo raffinato per restituire alle parole autenticità e forza. Il poeta Varano cammina lungo le frontiere del linguaggio, rischiando a volte il non senso. Attraverso un raffinato sovvertimento linguistico crea metafore assolute e compie sperimentazioni interessanti a livello linguistico. D’altra parte la poesia è “le langage même des transgressions du langage” (Barthes). L’autore investiga la realtà, partendo dalla propria esperienza di vita, mettendo a nudo la propria coscienza, nella parte più intima e nascosta, per percorrere vie ideali che segnano l’andare del nostro tempo. La sua penna descrive fatti, cose, persone che abitano e animano il suo ed il nostro vissuto quotidiano. Il filo rosso che collega le varie parti della raccolta è una tensione morale, scevra da pregiudizi o sterili moniti, intesa come spunto per una riflessione acuta e profonda. Il suo vissuto quotidiano fatto di emozioni, ricordi, memorie, viene messo a disposizione dell’attualità, la vita contemporanea dei suoi simili spesso sovrastata da bisogni immediati che non lasciano spazio alla meditazione, ad una presa di coscienza, etica, della propria vita. Una raccolta densa, evocativa, raffinata: una lettura poetica cadenzata, di grande impatto emotivo. Un libro che fa riflettere e, dunque, da leggere.
Michele Petullà

domenica 25 marzo 2012

Il grillo parlante: Il significato delle parole espropriate dalla politica


Delle citazioni di Calvino si abusa, ma c’è un suo pezzo del 1965 che in questi giorni mi torna in mente con insistenza ossessiva: perché non solo la politica, ma la nostra stessa vita passa attraverso il linguaggio. La patologia del linguaggio denota quindi un problema esistenziale molto più grande, non di rado esiziale. L’autore delle Città invisibili scriveva: «avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli di amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è il terrore semantico, cioè la fuga di fronte a un vocabolo che abbia per se stesso un significato […]. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente».

Flessibilità in uscita: libertà di licenziare secondo le fasi lunari, specie se si avvicinano i presupposti per l’assunzione a tempo indeterminato. Può essere buona, se si è licenziati con un sorriso, o cattiva, se la cosa finisce davanti al giudice. Il concetto di flessibilità è spesso accompagnato da aggettivi che lo rendono accattivante fino a conferirgli leggerezza, vitalità e brio. La rigidità del posto fisso è monotona, familistica, deprimente. Il precario è mobile, qual piuma al vento. E il vento soffia, lo si chiami blizzard o spread.

Paccata: elemosina sociale spacciata – o spaccata, se preferite – per concessione generosa. Un tempo avremmo parlato di spacconata, lemma del quale “paccata” rappresenta forse una crasi.

Contratto alfa: prodromo del contratto omega, con licenziamento finale.

Riforme condivise: ossimoro di portata storica e valenza oscuramente buonista. Si conosce anche la variante golpista delle riforme con divise, collegata a degenerazioni critiche della condivisione.

Sacrificio: termine sfuggente e solenne, il “fare sacro” tende a ricadere su lavoratori dipendenti e pensionati, su cui grava il compito di farci restare in Europa. Spesso è associato al concetto di equità, principio in nome del quale si legittima ogni tipo di discriminazione sociale.

Valore legale: è una locuzione evocata solo in termini abolizionistici, per trasformare in carta straccia titoli di studio faticosamente conseguiti in università plebee prive di risorse.

Libertà: si tratta di un termine precario in liquidazione, confuso con liberismo e libertinaggi concussori in fase di depenalizzazione. Si associa spesso a Giustizia, in attesa che le riforme condivise ne destrutturino i contenuti come sta accadendo all’articolo 18.

Responsabilità: abolita la variante politica e prescritta quella penale, il concetto viene ormai invocato solo a proposito dei giudici, responsabili colpevoli solvibili. Si ignora se questo profilo sia, come la corruzione, un pensiero fisso della Guardasigilli.

Legalità: è una nozione geneticamente modificata dalla mutazione ontologica dei suoi contenuti. Se legalità è rispetto delle leggi ad personam, la sua osservanza diventa beffarda e pedante.

Referente politico di Cosa Nostra: è espressione che, a detta della Cassazione, non significa nulla. Auspichiamo una sua rapida sostituzione con “mediatore subculturale tra Stato e concorrenza”: in tempo di liberismo economico, potrebbe trattarsi di una valida
alternativa professionale in un settore che non conosce crisi e assume a tempo indeterminato.

Dove trionfa l’antilingua la lingua viene uccisa, ma anche noi non ci sentiamo tanto bene.
Michele Petullà